giovedì 4 ottobre 2012

Scoperti inavvertitamente due buchi neri che viaggiano in coppia nella Via Lattea

Un team di astronomi statunitensi era alla ricerca di un buco nero ma ne ha trovati due, posti a dieci mila anni luce dal nostro Pianeta. A questo punto, risultano di conseguenza sconvolte le teorie della maggior parte degli scienziati, le quali adesso appunto vanno riviste. Come nelle maggiori tradizioni scientifiche, i ricercatori hanno effettuato una scoperta involontaria. Gli scienziati sono stati colti di sorpresa quando si sono accorti di trovarsi davanti a due buchi neri con all'incirca dieci-venti volte una massa stellare più grande del nostro Sole. Essi si trovano intorno all'ammasso globulare M22, che contiene migliaia di stelle una accanto all'altra, come riferisce il quotidiano '' Telegraph ''. Tutta questione di gravità: è per via di questa forza che gli ammassi stellari si creano e hanno una certa forma e che i buchi neri catturano tutta la materia e la luce che entra all’interno del loro orizzonte degli eventi. Ed è per via di questa forza che si pensava che in ogni ammasso stellare globulare non potesse esserci più di uno solo di questi oggetti onnivori. James Miller-Jones dell'International Centre for Radio Astronomy Research, a capo dello studio, afferma: "Eravamo alla ricerca di un grosso buco nero e invece ne abbiamo trovati due più piccoli leggermente decentrati" dice , che aggiunge "eravamo veramente sorpresi, perché la maggior parte dei teorici erano concordi che ce ne dovesse essere al massimo uno". Questa scoperta del tutto sorprendente ha fatto si che ora tutte le teorie e le varie simulazioni vadano nuovamente riprese e rivisitate, ha concluso James Miller-Jones. L'ammasso Messier 22, in teoria, avrebbe dovuto possedere al suo centro al massimo un buco nero a massa intermedia, ossia un buco nero piu' piccolo di quelli supermassicci che si trovano nel cuore delle galassie, e con una massa pari a quella del Sole o solo qualche volta quella del Sole. "Le simulazioni della storia di questi tipi di cluster che abbiamo finora elaborato mostravano tutte la possibilita' della presenza iniziale anche di molti buchi neri che poi, in una sorta di danza caotica l'uno attorno all'altro, finivano per collassare e fondersi fra loro fino a lasciare un unico buco nero sopravvissuto", continua James Miller-Jones. Gli astronomi, dunque, andavano alla ricerca di un grande buco nero al centro dell'ammasso, e invece hanno trovato due piccoli buchi neri leggermente distanti dal cuore del cluster, segno che "le teorie e i modelli usati finora debbano essere raffinati", ha concluso Miller-Jones. Il meccanismo di espulsione di questi oggetti celesti dall’immenso campo gravitazionale sarebbe dunque meno efficiente di quanto si riteneva in precedenza, e per questo motivo il numero di buchi neri negli ammassi potrebbe non ridursi soltanto a uno o due, ma in gruppi delle dimensioni di M22 potrebbe arrivare forse anche a centinaia. I due buchi neri comunque non sono di grandi dimensioni. La loro massa stellare è circa 10-20 volte quella del Sole, non intermedia come speravano gli autori del ritrovamento, già fin troppo fortunati per essere stati testimoni di un evento mai accaduto prima d'ora, che stravolge le conoscenze e i modelli considerati attendibili sull'evoluzione di questi densi sistemi stellari. Una teoria è che i buchi neri stessi gradualmente si siano espansi nelle parti centrali del cluster, riducendo la densità e quindi il tasso al quale un buco nero possa espellere l'altro attraverso questa 'danza gravitazionale'. Ciò significa che all'interno di un ammasso possono coesistere da cinque a un centinaio di buchi neri. Un caso di serendipità, questo ritrovamento, reso ancor più sorprendente dallo strumento grazie al quale i due buchi neri sono stati individuati: le 27 radioantenne del VLA, il Very Large Array dell’NRAO, il National Radio Astronomy Observatory americano. Sorprendente, dicevamo, perché mai prima d’ora s’era scoperto un buco nero in un ammasso globulare direttamente grazie a un’osservazione in onde radio. La scoperta è stata pubblicata sulla celebre rivista scientifica '' Nature ''.

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